Indice
Agroalimentare e tessile si intrecciano
I settori dell’agroalimentare e del tessile sono due dei pilastri su cui poggia l’economia italiana i loro prodotti rappresentano il nucleo centrale del Made in Italy nel mondo.
Tuttavia, le industrie dell’agroalimentare e del tessile, per il loro essere altamente impattanti dal punto di vista della produzione di scarti a ogni passaggio della filiera produttiva, sono oggi al centro delle politiche di transizione.
I modelli di economia circolare puntano a valorizzare e reimmettere nella produzione scarti e rifiuti industriali.
La gestione dei rifiuti dell’agroalimentare e lo scenario italiano
Parlare di rifiuti prodotti nell’industria agroalimentare significa fare riferimento a un fenomeno sfaccettato, che coinvolge aziende e cittadini in tutta la filiera della produzione, della distribuzione e del consumo di cibo.
Secondo il Rapporto sulla Bioeconomia in Europa di Intesa San Paolo del 2020 [1], i rifiuti agroalimentari della filiera europea ammontavano a 171 kg pro-capite nel 2018, di cui il 38% a carico delle famiglie (65 kg pro-capite), il 28% attribuibile alla trasformazione industriale (con 24 milioni di tonnellate per 48 kg pro-capite) e il 20% legato al settore agricolo (34 kg pro-capite).
I rifiuti della trasformazione industriale del nostro Pese si attestano a meno della metà della media europea, con 15 kg pro-capite.
Questo dato riflette le caratteristiche del tessuto produttivo agricolo italiano, estremamente vario dal punto di vista delle coltivazioni e che vede protagonista una costellazione di medie, piccole e piccolissime.
Lavorare alla riduzione dei rifiuti dell’industria alimentare significa lavorare sulla riduzione dello spreco di risorse come acqua, suolo, energia e manodopera [2].
Da una parte, quindi, la transizione alla sostenibilità del settore agroalimentare punta alla riduzione dello spreco alimentare, per gran parte domestico (acquisti eccessivi, alimenti mal conservati, scarto degli avanzi e scarti alimentari come bucce); dall’altra mira a ridurre e a valorizzare la quota di rifiuti organici prodotti nella lavorazione industriale (prodotti danneggiati, scarti di lavorazione, sovrapproduzione).
I rifiuti organici derivanti dalla produzione alimentare costituiscono una grande risorsa per la produzione di biomassa e biomateriali.
Per questo motivo il settore è uno dei nuclei di interesse principali del Green New Deal europeo adottato nel 2020 dalla Commissione Europea [3].
L’insostenibilità del sistema moda
L’industria della moda è uno dei settori produttivi più costosi in termini di risorse: l’evoluzione dell’industria fast fashion e la proliferazione di collezioni, insieme alla tendenza ad acquisti sempre più compulsivi, dettati anche dalla moltiplicazione infinita dell’offerta e da bassi prezzi, sono alcuni dei fattori che hanno determinato un aumento nello sfruttamento dell’acqua, della CO2 utilizzata per la produzione industriale e delle microplastiche rilasciate nell’ambiente [4].
Nel 2017, la Global Fashion Agenda ha calcolato l’impronta ecologica dell’industria della moda tra il 4 e il 6%, facendosi responsabile del 10% delle emissioni di gas serra globali e con un consumo, nel 2015, di 79 miliardi di metri cubi d’acqua [5].
Si stima, complessivamente, che alla produzione tessile sia riconducibile l’utilizzo di 1900 prodotti chimici (di cui 165 considerati dall’UE gravemente pericolosi per l’ambiente e per la salute), il 20% dell’inquinamento globale dell’acqua e che dal lavaggio dell’abbigliamento, specie quello sintetico, derivino 0,5 milioni di tonnellate di fibre sintetiche che ogni anno inquinano i nostri mari [4].
Un secondo ordine di problemi riguarda poi l’eccesso di indumenti invenduti o non più utilizzati: un cittadino europeo consuma annualmente 26 kg di indumenti, smaltendone 11.
La maggior parte di questo abbigliamento inutilizzato è destinato alla discarica [6].
Le principali strategie per una moda più sostenibile puntano quindi da una parte a incentivare le aziende a produrre in maniera più rispettosa e responsabile, anche suggerendo l’ampliamento dell’offerta di servizi di riparazione e riutilizzo.
Dall’altra, si punta sempre più a implementare la consapevolezza dei consumatori rispetto ai propri acquisti e ai propri comportamenti di gestione dell’abbigliamento, incentivando un consumo critico, consapevole e responsabile, promuovendo pratiche che possano allungare il ciclo di vita dei prodotti [5; 7].
Riutilizzo degli scarti alimentari nella creazione di nuovi materiali tessili: immaginare le industrie del futuro
Il Green New Deal Europeo e il CEAP (Circularity Economy Action Plan), hanno messo in luce la centralità del settore tessile nelle strategie di transizione verso la sostenibilità, promuovendo un maggiore sforzo verso il riciclo dei materiali tessili, oggi attestato globalmente intorno all’1% [3].
Viene inoltre incentivato l’utilizzo, all’interno dell’industria del tessile, di tutti quei materiali che provengono da diverse filiere, da quella edile a quella agroalimentare, puntando sullo sviluppo di tecnologie in grado di implementare strategie di circolarità.
All’interno di questa cornice, gli ultimi anni hanno visto nascere diverse esperienze di interazione tra i settori della moda e dell’agrifood nell’ottica di ridurre e valorizzare i rifiuti derivanti dalle lavorazioni industriali [8].
Dal punto di vista internazionale, nuove fibre tessili prodotte con scarti alimentari sono nate in Giappone con quello che viene chiamato cashmere vegetale (Soyebean Protein Fiber) prodotto dai rifiuti della lavorazione della soia, e con il Craybon, dall’estrazione di chitosano dall’esoscheletro dei crostacei poi miscelato con fibre come il lino o il cotone. Negli Stati Uniti, con la fibra di mais (Corn Fiber), utilizzabile tra l’altro anche nell’industria edile; a Taiwan, con l’S. Cafè, una fibra nata dalla lavorazione dei fondi di caffè e con alta capacità traspirante e anti odore.
In Europa, sono stati brevettati i tessuti Piñatex, in Spagna, dalla lavorazione degli scarti industriali dell’ananas; Bananatex, brevettato in Svizzera, dalla lavorazione delle bucce di banana; Qmilk, brevettato in Germania e derivante dalla caseina ottenuta dalla lavorazione degli scarti del latte scremato.
Un expertise tutto italiano
L’Italia vanta una grande varietà di produzioni agricole, che caratterizzano il territorio della penisola da Nord a Sud.
Tra i distretti più importanti, vi sono quello frutticolo, quello agrumicolo e quello ecologico. È da questa ricchezza che nascono le esperienze della Appleskin, o pelle-mela, di Orange Fiber [9] di Vegea – Wine Leather [10].
Appleskin è un tessuto brevettato da Frumat e ha le sue radici a Bolzano, nel ricco distretto della mela. Viene fabbricato e lavorato a Firenze, una città legata storicamente alla lavorazione del pellame e del cuoio.
Anche l’esperienza di Orange Fiber mescola diversi know-how locali: in Sicilia, dove ha sede l’azienda, avviene l’estrazione della cellulosa dagli scarti delle arance, mentre la tessitura ha luogo nel nord Italia.
L’idea nasce dalle dottoresse Enrica Arena e Adriana Santocito, siciliane di origine, che partono dalla considerazione delle ricche risorse regionali legate alla produzione agrumicola [11].
Sostenuta dal Politecnico di Milano, la fibra ottiene il brevetto internazionale nel 2014, e dal 2017 cominciano ad apparire le prime capsule collections.
Dal 2021, Orange Fiber collabora con il Gruppo Lezing alla fibra a marchio TENCEL™, composta da cellulosa da arancia e cellulosa da legno.
Vegea – Wine Leather è invece un’azienda fondata a Milano nel 2016 che produce pelle vegana partendo dagli scarti industriali della produzione vinicola, che nell’Italia vede primo Paese con il 18% della produzione di vino globale.
Conclusioni
L’inadeguatezza tecnologica e l’alto costo della trasformazione degli scarti alimentari rendono ancora complesso l’utilizzo di questi materiali nella grande produzione.
Tuttavia, queste esperienze nascono dalla collaborazione tra pubblico, privato, enti di ricerca e incubatori di sostenibilità, e dimostrano come sia possibile innovare l’industria tessile fin dalle materie prime.
Sarà quindi necessario puntare sulla ricerca e sullo sviluppo tecnologico, nonché sul coinvolgimento dei consumatori, per implementare queste esperienze in grado di valorizzare non solamente gli scarti, ma anche un grande expertise che trova le sue radici nel piano locale e la sua forza nella collaborazione territoriale.
Speriamo che tu abbia trovato la lettura di questo articolo sulle fibre tessili derivanti dagli scarti alimentari interessante. Per altri contenuti simili, consulta la sezione Blog del nostro sito web. E se vuoi restare sempre al passo con le ultime novità in fatto di Agrifood, iscriviti alla nostra Newsletter!
[1] Intesa San Paolo, La Bioeconomia in Europa, 6° Rapporto, 2020.
[2] Agenzia europea dell’ambiente, Dalla produzione allo scarto: il sistema alimentare, 2014. Consultabile al link: https://www.eea.europa.eu/it/segnali/segnali-2014/articoli/dalla-produzione-allo-scarto-il/
[3] European Commission, Circular Economy Action Plan. For a cleaner and more competitive Europe, 2020. Consultabile al link: https://ec.europa.eu/environment/circular-economy/pdf/new_circular_economy_action_plan.pdf
[4] EPRS European Parliamentary Research Service, Environmental impact of the textile and clothing industry. What consumers need to know, 2019. Consultabile al link: https://www.europarl.europa.eu/RegData/etudes/BRIE/2019/633143/EPRS_BRI(2019)633143_EN.pdf
[5] Global Fashion Agenda, Pulse of The Fashion Industry, 2017.
[6] JRC Joint Research Centre, Environmental Improvement Potential of textiles (IMPRO Textiles), 2014.
[7] Ellen Macarthur Foundation, A New Texiles Economy: Redesigning fashion’s future, 2017.
[8 ]Marco Richetti [ed.], Moda. Neomateriali per l’economia circolare, ed. Ambiente, 2017.
[9] Orange Fiber https://orangefiber.it
[10] Vegea – Wine Leather https://www.vegeacompany.com/v-textile/
[11] Romana Rinaldi [ed.] Fashion Industry 2030, Egea editore, 2019.
Eleonora Noia, PhD
Dottoressa di Ricerca (PhD) in Sociologia, Organizzazioni e Culture. Lavora come assegnista di ricerca presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Nella sua ricerca si occupa di industrie culturali del cibo e della moda e dei processi di transizione verso la sostenibilità che le stanno attraversando.